Emoji e colore della pelle: diversità, immedesimazione o razzismo?

Quando si parla di emoji, quei particolari pittogrammi che simulano la rappresentazione del volto umano e delle sue espressioni-emozioni, gesti e situazioni, viene naturale pensare alla loro massiccia diffusione. Inventate alla fine degli anni ’90 in Giappone, si sono evolute e dal 2015 sono state introdotte in cinque varianti: da quella con la carnagione più chiara sino a quella più scura (prima erano tutte uguali e unicamente di colore giallo).

Come spesso capita, sin da subito tale implementazione ha suscitato forti critiche perché, soprattutto in un ambiente di messaggistica “rapida” come Twitter, il loro uso avrebbe potuto trasformarsi in abuso, da parte di qualcuno, con evidenti finalità razziste-denigratorie.

Un recente studio, condotto presso l’Università di Edimburgo, che ha analizzato un’ingente quantità di “tweets“, ha mostrato invece che l’utilizzo di questi strumenti con un’accezione negativa è assai limitato, ristretto ad una sparuta cerchia di individui, mentre nella maggioranza appare come gli utenti tendano a scegliere la “faccina” in base alla gradazione di colore della pelle che più si avvicina alla propria, nella realtà. Ecco dunque che in generale prevale un senso di immedesimazione anziché violenza, cattiveria o razzismo.

Alla stessa stregua già si parla di emoji con i capelli rossi, proprio per incontrare le esigenze di chi ha questa particolare e affascinante cromia.

Tutto questo discorso pare banale, perché in fondo si parla di qualcosa che per molti è certamente superfluo, tuttavia apre nuovi scenari e spunti di riflessione alla luce di come si sia evoluta la comunicazione con internet e soprattutto con la (ri)scoperta dei pittogrammi, capaci di superare le barriere linguistiche e mostrare stati d’animo, emozioni e gesti senza dover usare le parole. Appare oltretutto gradevole scoprire che tale strumento superi anche le differenze (intese come qualcosa di negativo) e la cattiveria, relegando tali comportamenti superficiali e infondati solo ad un numero esiguo di persone, mentre in generale sia uno strumento positivo che permetta una partecipazione più intensa e vicina agli utenti.
Dallo studio emergono anche due dati emblematici. Innanzi tutto, le persone di carnagione chiara tendono a non scegliere le corrispondenti emoji “troppo pallide”, in quanto si pensa che sia dovuto al fatto che anche nella versione standard siano comunque rappresentate, mentre quelle dalla tonalità più scura sono meno utilizzate e ciò mostra come gli individui con tale gradazione provengano generalmente da zone dove non vi è ancora una larga diffusione di internet e di conseguenza della scarsa frequentazione dei Social Network.

Il massiccio uso di queste “faccine” fa capire che le persone sentono realmente la necessità di tali strumenti “personalizzati”, fatto che indica come ciò rifletta il modo in cui ognuno si percepisce.

Insomma, la comunicazione incontra l’informatica e la psicologia (e anche la geografia, come abbiamo appena visto), traendo ottimi spunti e strumenti utili per far dialogare tutte queste discipline scientifiche, apparentemente distanti fra loro, pur restando in punta di piedi e stimolando una cooperazione multidisciplinare o “cross-disciplinare” continua.

Tutto ciò mostra, seppur con un approccio differente, come abbiamo già visto e cioè che la diversità sia un elemento di ricchezza dell’umanità e anche la nostra “controparte” virtuale deve in qualche modo assomigliarci affinché ci si senta ancor più partecipi nel dialogo globale. La comunicazione (in questo caso nella sua declinazione non verbale) permette infinite vie d’incontro, perché del resto il linguaggio (e qualunque forma espressiva di tipo linguistico) è la caratteristica che più di ogni altra ci distingue nel regno animale. Perché dunque non sfruttarla appieno anche in internet? 

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